nel quartiere di Porta Nuova, dove Milano si specchia ogni sera nelle superfici di vetro e acciaio e il verde verticale rompe la geometria delle torri, il Ristorante Berton sembra dialogare silenziosamente con lo skyline. È qui, tra la Diamond Tower, il profilo della Torre Unicredit e il Bosco Verticale, che prende forma un’idea di ospitalità pensata come immersione totale: il kitchen table di Andrea Berton.
Chef Berton racconta che quell’idea nasce già all’apertura de ristorante, con il desiderio di «dargli una connotazione leggermente diversa da quei tavoli in cucina che delle volte sono chiusi all’interno di una piccola stanza oppure isolati». Ha voluto invece una linea di contatto diretto: un solo tavolo, esclusivamente per due persone, nessuna barriera simbolica fra ospite e brigata. L’immagine che gli piace evocare è quella dello stadio: «Un po’ come vedere la partita allo stadio San Siro in campo, dove ci sono le panchine dell’allenatore, e questo è stato lo spirito che ho voluto dare a questo tavolo». Una posizione da bordo campo gastronomico che trasforma il pasto in osservazione ravvicinata di ritmo, gesti, sincronismi.
I grattacieli croccanti raccontano una storia di Milano a tante facce, che unisce tradizione e innovazione. Crediti: Ristorante Berton
Il menu dedicato non è la semplice rielaborazione di quello del ristorante né un esercizio estemporaneo: è un montaggio ragionato di piatti iconici già presenti e preparazioni che non compaiono nelle sequenze ufficiali. Viene costruito ogni volta “su misura”, tenendo in conto intolleranze, ingredienti sgraditi, desideri, fino a trasformare una preferenza dichiarata in ispirazione creativa: se un ospite ama i carciofi, assaggerà un piatto centrato sul carciofo. Tutto avviene dopo un ascolto preliminare, quasi un piccolo rito d’ingresso, e poi la composizione prende forma come partitura calibrata.
È un po’ come vedere la partita allo stadio San Siro in campo, dove ci sono le panchine dell’allenatore
Vista da fuori, la cucina vive la presenza degli ospiti con naturalezza. Lì dentro nulla cambia, ribadisce lo chef: averli accanto «non rappresenta una sfida… è la nostra normalità». La differenza è tutta negli occhi di chi siede a quel tavolo e assiste allo scorrere coordinato delle micro–azioni: il taglio, la finitura, l’impiattamento, l’alternarsi dei ruoli. Gli ospiti restano colpiti e spesso sorpresi dall'organizzazione e dal sincronismo che c'è nei movimenti e nella preparazione dei piatti; è il tema che, racconta, gli fanno notare più spesso.
Il suggerimento principe per vivere l’esperienza è uno: abbandonarsi. «Di lasciarsi guidare da noi: questo è il suggerimento che diamo sempre». Nel tempo, quella fiducia ha permesso alla brigata di far scoprire l’aglio a chi non lo amava, o proporre interiora a chi non le aveva mai considerate; convincere a provare gusti e pietanze percepite come ostiche. L’atto di assaggiare diventa quindi un piccolo superamento personale, un passo oltre le abitudini.
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Milano (Lombardia)